Il vantaggio dello scrivere un blog e non un magazine è la possibilità di scendere sul piano personale offrendo ai lettori non solo informazioni, ma anche una testimonianza diretta, quasi una confidenza.
L’incontro con Afran è stato per me un momento di crescita e di profonda riflessione.
Francis Nathan Abiamba è il nome completo di questo straordinario artista, che durante la nostra intervista mi ha insegnato due concetti fondamentali, che dovrebbero essere i cardini dell’arte, ma anche della vita fuori da essa: umiltà e purezza.
Ho conosciuto Afran tramite un’amica comune, Federica Nardese ( fotografa di ritratto e fineart, che non smetterò mai di ringraziare). Federica ha seguito passo dopo passo la nascita di “L’Arte di cavarsela” e a lavori terminati mi ha suggerito di dare un’occhiata alle opere di Afran e di contattarlo per chiedergli di essere inserito nel progetto. Ricordo di aver sgranato gli occhi appena aperto il profilo Instagram di Afran! I suoi lavori mi hanno colpita subito. Mi hanno lasciata letteralmente senza parole. Mi sono apparsi pieni di luce, brillanti, vividi. Ho percepito la grandezza dell’artista che avevo di fronte e ho pensato d’istinto, che fosse troppo per un progetto appena nato. Non mi sono fatta scoraggiare e ho timidamente inviato un messaggio di richiesta intervista, non riuscendo a nascondere la profonda emozione e l’impazienza di ricevere un “sì” come risposta.
La risposta positiva non ha tardato ad arrivare. Al contrario di ogni mio timore di non essere sufficientemente qualificata per dargli il giusto spazio, Afran si è mostrato quasi più elettrizzato di me nel poter essere intervistato. “Non ho mai avuto modo di esprimermi al di fuori della mia identità di artista“. Quando un artista che ha esposto le sue opere in giro per il mondo, che ha esposto alla Biennale di Venezia e alla Triennale di Milano ti dice una frase del genere, pensi due cose: la prima è di essere sulla strada giusta e di poter affrontare la sfida a testa alta; la seconda è di avere di fronte non un artista di fama internazionale, ma un essere umano dalla profonda sensibilità, dotato di un talento innegabile, che mette a disposizione della collettività.
UMILTA’
Abbiamo organizzato il nostro incontro in pochissimo e abbiamo deciso che l’intervista si sarebbe svolta nel suo atelier a Pescate (LC). Potevo forse perdermi l’occasione di vedere alcune sue opere da vicino? Certe occasioni vanno colte al volo!
Lasciatemi dire che il suo atelier è esattamente come un atelier dovrebbe essere. Capisci già dalla porta di essere in procinto di entrare in un mondo parallelo, costruito su regole proprie, con concetti di spazio, ordine e colore che non hanno nulla a che vedere con quanto viviamo quotidianamente.
Non ho potuto guardarmi allo specchio, ma vi garantisco che trovarsi di fronte a una delle sculture in denim di Afran, illumina lo sguardo. Non si può fare a meno di spalancare gli occhi, perché lo sguardo vuole di più, desidera di più, anela alla totale comprensione di ciò che sta osservando.
L’intervista è durata quasi un’ora. Un’ora in cui non ci sono state barriere tra me ed Afran. Un’ora in cui non si è creata nessuna gerarchia, nessuna posizione di superiorità e inferiorità. Un’ora in cui abbiamo annientato qualunque differenza possa esistere tra due individui: uomo/donna, più grande/più piccolo, differenze nel colore della pelle, differenze nello stile di abbigliamento, differenze linguistiche… In quell’ora di intervista io ed Afran siamo stati l’insieme più spontaneo e naturale che si possa trovare: un artista e una ragazza interessata alle sue opere e alla sua storia.
PUREZZA

Isabel: Da dove nasce l’idea del denim?
Afran: Io amo il denim. E ho sempre lavorato col denim in qualche modo. Quando andavo al liceo già disegnavo e proprio al liceo ho iniziato a decorare i miei abiti e soprattutto i miei jeans e quelli dei miei compagni. Tempo dopo, quando ho iniziato una ricerca concettuale del mio stile, ho deciso di concentrarmi sulla rappresentazione del mondo contemporaneo approfondendo il culto dell’immagine. Ho riassunto questa ricerca spasmodica dell’apparire, nell’abbigliamento. Ma quale capo di vestiario avrebbe potuto racchiudere tutto questo? Ho pensato al jeans. Il jeans nasce per essere usato come abbigliamento da lavoro e poi finisce sulle passerelle d’alta moda. Nasce dall’idea di un ebreo, nasce in Europa, ma poi finisce ad essere sviluppato in America. Per colorarlo vengono usati coloranti che arrivano dall’Asia e dall’Africa. Il denim è stato presente in ogni momento della storia contemporanea e non ha limiti di età o di sesso. Non ha limiti di tempo, perché da quando è entrato nella moda non ne è più uscito. Ha riassunto l’andamento dell’economia mondiale partendo dagli Stati Uniti, per poi finire in Cina. Il denim comprende tutto e tutti. Capisci quanto fosse perfetto per rappresentarmi! Poi plasticamente è una meraviglia! Le sue cuciture sono subito riconoscibili, gli danno un’identità. Quelle stesse cuciture per me si trasformano in linee grafiche, che sottolineano già il dettaglio. I suoi colori poi! Quando è vissuto offre dei chiaro scuri che mi aiutano a rendere ogni pezzo unico.
I.: Recentemente ho intervistato due writers, che tra le loro opere ne hanno una intitolata Adamo ed Eva. Ho sorriso scoprendo, che anche tu hai i tuoi personali Adamo ed Eva. Cosa affascina ancora di questo mito?
Afran: Adamo ed Eva rappresentano il ritorno alle origini. Per uno come me che non vive nella sua terra, è una ricerca costante quella del luogo di appartenenza. Un conflitto! Nel caso però della mia opera, “La recidiva di Adamo ed Eva”, c’è una sfumatura polemica a incorniciare il tutto. Quell’opera è nata intorno al 2016, credo. Quel periodo è stato segnato dal boom dell’ISIS, del terrorismo, dei femminicidi. E’ stato un periodo caratterizzato da forti tensioni, un momento di grande violenza, in cui c’è stato anche un ritorno della destra al potere. Mi sono pertanto ritrovato a pensare che se dopo le due grandi guerre, dopo la caduta del muro di Berlino, sembrava che il mondo avesse trovato equilibrio e ragione, ecco che stavamo tornano al caos! Pensavamo di essere avanti nell’affrontare la figura della donna, ed ecco decine di donne assassinate. Credevamo di esserci lasciati alle spalle le guerre di religione, ed ecco gli integralisti che organizzavano attentati. Recidivi. Come se avessimo mangiato già il frutto, ne avessimo visto le conseguenze, ma eccoci ancora lì.
I.: La parte grafica del tuo lavoro è caratterizzata da colori forti, accesi, quasi fluo. Cosa ti attira di questa gamma di colori?
Afran: Io voglio esagerare! Nelle cose a metà sono bravi tutti. Tutti bravi a restare timidi dietro a una condizione di comodo. Quando vivi a metà non hai nulla da giustificare, nessuno ti nota, nessuno ti fa domande. A me piacciono molto le persone stravaganti invece, perché hanno carattere, prendono una posizione, hanno qualcosa per cui combattere. Diciamo che io offro due lati di me: un lato monocromatico, quello del jeans e un lato molto colorato, quello della pittura. Sono due facce della stella medaglia. Nel mondo in cui viviamo, così avanzato tecnologicamente, abbiamo mille e più possibilità. Allo stesso tempo vedo un appiattimento generale. Se da un lato abbiamo tanto, dall’altro abbiamo il vuoto. Voglio cavalcare questi opposti, rappresentarli! Quindi se da un lato sono monocromatico, dall’altro esagero per ritrovarmi all’esatto opposto.

I.: “La bellezza che guida il popolo”. A che tipo di bellezza pensavi quando hai composto quest’opera?
Afran: Anche questa mia opera nasconde una polemica. Il quadro parte da una scultura greca, che io ho riproposto. La scultura è fatta di marmo, quindi dovrebbe essere bianca. Ma ho iniziato a decorarla, a inserire colore, aggiungerle dei ghirigori… Ho aggiunto sempre più colore, perché ne volevo di più. Non mi bastava mai. Fino a che della scultura si sono persi i contorni, perché il colore è così abbondante da colarle addosso. Da dove deriva quest’opera? Hai presente la citazione di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo”? Spesso dopo che le persone vedono un mio quadro o una mia scultura, mi ripetono questa citazione. E io sento che mi manca l’aria! Penso che non possano davvero credere che questo tipo di bellezza, cioè mettere del colore su una tela, possa salvarci. Se così fosse saremmo già salvi! Il mondo sforna artisti, designer, architetti, abbiamo a disposizione tecnologie avanzate per ottenere una bellezza sempre più perfetta. Ne “La bellezza che guida il popolo” io esprimo questo accanimento nella ricerca di una bellezza salvifica. In tutto questo io non posso rispondere alla tua domanda, ma nego che sia quel tipo di bellezza che può risollevarci.
I.: Mi permetto di dire che forse chi crede che la bellezza che produci possa salvare il mondo, non si riferisce tanto alle tue opere, ma a te. Le tue opere diventano espressione del tuo spirito, della tua sensibilità e quindi della tua bellezza interiore.
Afran: Io spero tu abbia ragione! Che si riferiscano alla bellezza interiore degli artisti. Ma anche in questo caso, non me la sento di prendermi questa responsabilità. Se assumessi questo ruolo, per quanto lusingato dal pensiero altrui, sarebbe un po’ come auto lodarmi. Magari fossi in grado di influenzare così le persone, vorrebbe dire avere una vita…piena! Ma non me la sento.
I.: Oggi basta aprire una app per essere sommersi da arte e da artisti, tanto che a volte sembra che di arte ce ne sia fin troppa. Ti manca mai l’arte silenziosa, quella che si crea in silenzio, protetti dalle mura di un atelier?
Afran: Premetto una cosa: io non sono contro i social, anche se credo che siano un argomento molto più complesso e delicato di quello che siamo spinti a pensare. Io sono entrato su Instagram solo 2 anni fa. Ne sono sempre stato lontano, perché essendo contrario al mondo dell’apparire, questo social rappresentava per me l’emblema di ciò che io non apprezzavo. In più sono una persona molto imbranata con tutto ciò che riguarda la tecnologia e mi sono nascosto dietro a questa incapacità e pigrizia. Mi sono però scontrato con il fatto che ovunque andassi mi chiedevano di essere seguito sui social. Così ho fatto il grande passo e mi sono iscritto. Dal momento in cui ho creato il profilo ho ricevuto molti feedback positivi e ho ottenuto delle collaborazioni con persone e gallerie con cui, senza Instagram, non sarei mai potuto entrare in contatto. Mi sono ricreduto e ho realizzato, che essendo un social basato sull’immagine, chi meglio di un artista visivo può e deve trovarsi su questo canale? E’ nostra la responsabilità principale di diffondere qualità. Qual è il lato negativo? I social ti permettono di mostrare ciò che prima non vedeva nessuno: tutti vedevano l’opera terminata, ora possono seguire passo dopo passo la realizzazione dell’opera. Ma per dare alle persone collegate questi retroscena a volte non me li godo. Prima erano momenti di solitudine e preziosa riflessione. Ora rischiano di passarmi veloci, senza che me ne accorga, perché sono preoccupato a renderli visibili a tutti. E’ un dato di fatto che nell’ansia di metterti in contatto col mondo esterno, perdi qualcosa sul lato dell’introspezione. Non so di che entità sia questa perdita, ma a volte mi manca meditare in solitudine su un’opera, scavare più a fondo tra me e me.
I.: Il mondo dell’arte è discriminante?
Afran: Sicuramente sì. Lo è in modo molto sottile, però. Cerca di darti un palcoscenico, ma in un contesto preciso: un contesto che diventa ghetto. Per dirti: proprio di recente mi sono concesso il lusso di rifiutare di partecipare a un progetto per un museo molto grande di Milano (ndr: Non ne riporto il nome per discrezione). Mi avevano chiesto di realizzare un’opera molto importante. Ma ho rifiutato! L’ho fatto nel momento in cui ho capito l’orientamento dell’esposizione. La richiesta di collaborazione non era arrivata per la mia bravura o perché le mie opere riflettevano esattamente ciò che gli allestitori stavano cercando, ma per le mie origini. Per la mia condizione di nero e africano. Non è un episodio paragonabile a quando mi sono visto chiudere in faccia la porta della galleria… Che poi in quell’occasione non sapevano nemmeno che io fossi un artista! (ride) Non è questo tipo di discriminazione, ma anche selezionare qualcuno per il suo colore di pelle, può essere discriminante. Io ho sempre composto arte che non derivasse dalle mie origini. Dal mio pensiero, dal mio io interiore, ma non dal mio essere africano. Ci sono molte realtà che si dedicano esclusivamente agli artisti africani, perché africani. E ti spingono a sottolineare che tu sia di origini africane, ricercano questo anche nei tuoi lavori. Ma per me l’arte è arte! Non deve importare da dove provenga.
I.: Hai mai nostalgia del Camerun?
Afran: Immensamente. Sono 7 anni che non vado in Camerun. Nei miei primi anni in Italia non ne ho sentito molto la mancanza, perché appena arrivato sono stato sommerso da stimoli, da cose da fare. Sono stato troppo impegnato per pensarci.
I.: Sai, c’è un paesino nel sud Italia che io definisco “casa”. A volte mentre sono in giro per la città mi capita di sentire nell’aria dei profumi, che me lo ricordano. A te succede mai di risentire nell’aria qualche profumo particolare che ti ricorda il tuo paese di origine?
Afran: Sai, non saprei cosa risponderti. Mi capita continuamente, soprattutto ultimamente, ma non avverto un profumo preciso. Più che altro ciò che sento e che provo è la mancanza della terra sotto ai piedi. Avverto l’esigenza, viscerale, di riconnettermi con la mia terra. Anche perché la memoria inizia a giocarmi dei brutti scherzi! I miei ricordi iniziano a farsi sempre più sfocati. Io ho 7 fratelli e vivono tutti in Camerun e quando ci sentiamo e parliamo il nostro dialetto, mi accorgo che non ho più fluidità nel parlarlo, a volte mi sfuggono dei termini. Certo non ho mai avuto un grande memoria. Al mese avrò forse 4 GB, di memoria! (ridiamo) Ma al di là di questo, sentirmi in difficoltà a formulare una frase nella mia lingua mi fa stare male.

I.: Hai detto di voler fare della tua arte, ciò che i bluesman hanno fatto del blues. Hai un bluesman a cui ti ispiri maggiormente?
Afran: A me piace il blues e i bluesman li apprezzo tutti in egual modo. Ma se devo scegliere, ti rispondo BB King. La musica di BB King ha viaggiato attraverso diversi momenti del blues. E’ nato insieme a tutti gli altri, è cresciuto con gli altri, ma ha vissuto l’epoca contemporanea in pieno, mischiandosi, adattandosi, rimodernandosi. Ha mostrato elasticità e capacità di adattamento. Quel tipo di approccio è lo stesso che io vorrei avere nell’arte. Non mi fido della rigidità. Noi siamo sempre influenzati dal mondo esterno. Se ci irrigidiamo, se neghiamo l’influenza della realtà che ci circonda non siamo sinceri. Ci stiamo solo intestardendo e limitando.
I.: Qual è la rinuncia più grande che hai fatto per l’arte?
Afran: Il tempo. Per provvedere al fabbisogno della mia famiglia io ora ho un lavoro da 8 ore. Tutto il tempo che resta dopo quelle 8 ore di lavoro, lo dedico all’arte. Io vivo vicino alle montagne in una zona bellissima e mia moglie e le mie bambine adorano andare a fare escursioni. Per andare in montagna ci vuole una giornata intera se calcoli il tempo per salire e scendere. Capita spesso che rinunci alla giornata fuori per potermi dedicare all’arte, perché dopo una settimana passata a lavorare, l’unico tempo che resta per realizzare quell’idea che ho fermato in 5 giorni lavorativi, è il weekend. All’arte sacrifico questo. Il mio tempo libero e le relazioni umane che potrei intrattenere in quel momento.
I.: Qual è l’emozione che, più di tutte, vorresti arrivasse a chi osserva le tue opere?
Afran: Ahi, ahi! Tu mi fai sempre queste domande in cui devo risponderti qualcosa di preciso e io non riesco ad esserlo. Non sono mai stato preciso nella vita! Forse non è tanto un’emozione ciò che cerco, ma una reazione. Vorrei spingerli a scavare, ad andare oltre. Le mie opere non sono mai solo ciò che sembrano. Il loro significato non è immediato, è nascosto tra gli strati. Anche nei titoli che do alle creazioni, c’è sempre un messaggio dietro, come in una metafora. Vorrei spingere le persone a mettersi alla ricerca di quel di più che c’è sempre.
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