Varca questo cancello in silenzio e con la mente vuota.
Fa un respiro profondo. Chiudi gli occhi. Butta fuori tutto. Apri gli occhi ora e vieni con me.
C’è un ragazzino laggiù. E’ più alto di me se si alza da quella panchina, ha dei lineamenti spigolosi e lo sguardo fermo e severo. Eppure ti dico che è un bambino! Non ha nemmeno 15 anni. Sta lì seduto a bordo campo a osservare i compagni che giocano. Oggi a lui non va di giocare. Oggi a lui non va di urlare e scatenarsi. C’è il sole e vuole stare seduto su quella panchina, silenzioso, spaccato a metà tra la realtà e il subconscio.
Avvicinati, osservalo meglio!
Sta qui a passarsi una sigaretta tra le dita, indeciso se fumarla o meno. Dà uno sguardo agli amici che giocano poi si guarda le scarpe, usurate e slacciate. A quest’età la vita inizia ad apparirti pesante. Inizi a commettere un errore dopo l’altro, a non sopportare nessuno, a odiare gli adulti, a sentirti incompreso nei tuoi bisogni. Che poi a quell’età i tuoi bisogni non li hai capiti nemmeno tu. Dovresti? Vorresti solo giocare, scherzare coi coetanei ed essere coccolato dagli adulti. Sentirti protetto. Invece da un giorno all’altro iniziano a rimbeccarti per ogni azione o parola, hanno preso a pretendere, a desiderarti diverso, di più… sempre tutto di più o diverso da come lo hai fatto, da come sei.
Te la ricordi quella rabbia e quella confusione? Non ti viene da sorridere a guardarlo così crucciato? Non ti viene da abbracciarlo sorridendo e rassicurarlo che comprendi come si sente e che la sua solitudine altro non è che il peso di una maturità che cresce?
Sei un padre o una madre, sei un fratello o una sorella maggiore, sei una giovane donna o un uomo maturo, certo che vorresti abbracciarlo. O dargli una pacca sulla spalla e dirgli che andrà tutto bene.
Tutt’intorno a questo ragazzino c’è un edificio. Sembra una di quelle vecchie scuole, te le ricordi le nostre scuole medie? Un po’ decadenti, tristi, con l’intonaco che si staccava e le finestre vecchie, grigie e… con le sbarre. Sì, hai visto bene! Sono sbarre quelle alle finestre.
Non te lo avevo detto? E’ un carcere questo. L’ IPM (Istituto Penale Minorile) della tua città.
Se adesso ti volti e te ne vai il silenzio questo ragazzino potrebbe portarselo via per sempre. Non ci sono mamma e papà che lo aspettano per cena. Mamma e papà potrebbero non esserci ad aspettarlo nemmeno fuori. Forse non ci sarà nemmeno un “fuori“. Forse non c’è neppure un “forse“. C’è un qui e ora. Seduto su questa panchina a prendere il sole, perché dentro a volte non c’è neppure il sole, perché non c’è solitudine se non quella interiore, c’è solo questa sigaretta che non fuma, perché poi chissà quando ne potrà fumare un’altra. Dentro non si dorme o si dorme poco e male. Dentro si urla o ci si logora in un silenzio tombale. Dentro si ha paura. Dentro ci si fa male, anche da soli, anche di proposito. Dentro ci si sente solo dentro. Dentro un edificio, dentro una cella, dentro se stessi.
La senti quest’ansia? Lo senti questo fastidio? Fallo crescere a livello esponenziale, fino a toglierti il fiato.
So cosa pensi: eri qui perché parlassimo di arte e invece ti ho portato in un carcere minorile. Siamo nel posto giusto per l’arte, siamo nel posto perfetto per il rap. Perchè il rap è crudo, è poesia che non è poesia: è la descrizione letterale della realtà. Un pugno allo stomaco, BAM! Queste rime ti parleranno della vita dentro, della carriera da rapper di Francesco “Kento” Carlo, del suo ultimo libro “Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile“, dei suoi laboratori di scrittura creativa, del significato più puro del concetto di arte salvifica.

Isabel: Parlare di temi importanti e chiedere il cambiamento attraverso la musica. La musica ha ancora questo potere nel 2022?
Kento: Io ho la fortuna di avere il rap dalla mia parte e questo mi da due vantaggi. Primo: i ragazzi già sanno di cosa sto parlando, non devo spiegar loro nulla. Entro in aula e dico “Bene, oggi facciamo 4 barre a testa!” o “Oggi facciamo freestyle!”. E’ più complicato a volte spiegarlo agli adulti. Secondo: il rap è un genere musicale estremamente democratico! Pensa se dovessi affrontare un seminario rock in carcere. Dovrei portarmi gli strumenti, accordarli, trovare chi sa leggere la musica. Il rap non è così. Col rap a volte non serve nemmeno saper leggere o scrivere! Mi capita spesso di lavorare molto bene con ragazzi analfabeti. Basta avere un cervello e una bocca che ti funzionano. Secondo me non è possibile capire o interpretare i nostri anni senza passare dal rap e più in generale dalla cultura hip hop. Quando ero piccolo mi auguravo che l’hip hop diventasse il nuovo rock’n’roll: in realtà è diventato molto di più. Influenza ogni aspetto della nostra vita quotidiana
I.: E’ il nuovo Pop!
Kento: Ancora di più. E’ una chiave di lettura indispensabile! Lo ritroviamo ovunque dalla pubblicità all’arte visiva fino al linguaggio di altri generi musicali. E’ davvero impossibile non raccontare la realtà senza questa chiave di lettura.
I.: Parlare di mafia nei primi anni 2000 era un gesto forte. Parlare di mafia 20 anni dopo è diventato più facile?
Kento: “Parlare” è sempre relativamente facile. La cosa difficile è lavorare sul territorio e lavorare ogni giorno. Tra l’altro il momento più difficile di quando coi Kalafro abbiamo prodotto “Resistenze Sonore”, il concept album dedicato alla lotta alla ‘Ndrangheta, l’abbiamo avuto qui a Milano quando ci furono problemi e intimidazioni anche abbastanza pesanti a chi aveva organizzato il concerto. Ma non è tanto questo il punto, perché per una situazione problematica ce ne sono state mille di solidarietà e di impegno attivo. Però come dico spesso: io faccio un concerto e vado via. Le vere persone imprescindibili sono quelle che lavorano quotidianamente sul territorio, al nord come al sud, perché ormai le mafie non sono più realtà localizzate, non hanno più confini.
I.: Insegnare il rap come si insegna lo storytelling: al di là delle classifiche il rap si è davvero guadagnato un posto nell’arte della letteratura?
Kento: Il rap è il rap e ha la sua dignità autonoma. Ma al giorno d’oggi il rap, e l’hip hop in generale, è così adulto e così maturo che si può misurare ad armi pari con qualunque forma di espressione. Con la filosofia, con la letteratura, con la pedagogia. E io sono molto contento di poter vivere quest’epoca dell’hip hop! E tramite questa chiave espressiva dei nostri anni io posso dialogare con chiunque. Non pretendo assolutamente di essere un filosofo, un pedagogista o un artista di altro tipo. Ma mi rendo conto che tramite il rap io riesco a comprendere ciò che accade intorno a me e posso offrire questa competenza agli altri. E’ straordinario pensare che esista la pedagogia hip hop, il giornalismo hip hop e perfino la filosofia hip hop.
I.: Quando e come sei arrivato a decidere di donare il rap agli “ultimi”?
Kento: Bruce Lee diceva “Io non faccio esperienza, io sono esperienza”. Negli ultimi anni ho cercato di non fare hip hop, ma di essere hip hop. E il carcere puzza di hip hop come puzza in egual misura di sudore e disinfettante industriale. E’ un luogo dove senti davvero l’impatto di questo tipo di racconto, di un certo tipo di esperienze quindi non è stato molto difficile arrivarci. La cosa davvero bella è stata che mi sono reso conto che era possibile attivare una reciprocità: potevo lasciare qualcosa e portare via qualcosa. E questa è una dinamica che non sempre è possibile attivare.
I.: Com’è possibile che un ragazzino con evidenti segni di autolesionismo sia dietro le sbarre e non affidato alle giuste cure?
Kento: Questa è una domanda che mi pongo anche io. Io ho molte più domande che risposte! Non dimenticare che io entro lì dentro a fare rap. Non sono uno psicologo, non sono un educatore. Quello che ti posso dire è solo che ci sono molti, moltissimi ragazzi che portano segni di autolesionismo. La cosa più tipica è che si taglino le braccia, per cui se ti capita di entrare in un carcere in piena estate e vedi qualcuno con le maniche lunghe è un campanello d’allarme. Ma forse l’autolesionismo più brutto è quello che non si vede. Quello che coinvolge parti del corpo nascoste o forme di autoviolenza che non si riconoscono al primo impatto. Per esempio mi diceva un’amica educatrice, che tra i controlli che fanno spesso se un ragazzo dichiara che nell’ultimo anno ha fatto, per esempio, 5 incidenti col motorino, è un allarme che forse non gli interessa molto vivere, non si prende abbastanza cura di sé. E’ un argomento che va oltre al rap e sicuramente dovremmo prestargli maggiore attenzione come comunità.
I.: Lo stato dimentica, lo stato lavora male. Ma la società? Come si sconfigge quello sguardo perennemente accusatorio e che non lascia speranza a chi esce da un certo tipo di strutture?
Kento: Lo stigma nei confronti dei detenuti è ancora più grave quando si parla di ragazzi minorenni. Anche su questo non penso ci sia una risposta facile. Il primo passo penso sia informarsi. Sapere quante carceri minorili ci sono in Italia, dove si trova quello più vicino a noi. Molto spesso mi è stato raccontato che le carceri non fanno parte delle mappe, non sono disegnate sulle mappe delle città. Questo è gravissimo! Perché se il carcere non fa parte della città, il detenuto non fa parte della nostra comunità ed è un pensiero di una gravità straordinaria se applicato a dei ragazzi minorenni. Per carità parliamo di ragazzi minorenni che non sono angioletti, hanno commesso errori. Ma spesso si trovano in situazioni economiche, familiari e sociali disastrate. In tanti anni di esperienza nelle carceri non ne ho incontrato nemmeno uno che abbia una bella famiglia solida alle spalle. Perfino le condizioni economiche passano in secondo piano a volte perché, sì arrivano tutti da situazioni di povertà. Ma la famiglia e la socialità ristretta funzionano. Se è mancata è un fardello che dovremmo assumerci come collettività.
I.: All’interno del libro denunci anche il fatto che ti sia capitato di non poter svolgere la tua attività di laboratorio per una parola sbagliata. Laboratorio per cui vieni retribuito ugualmente e con soldi spesso pubblici. Possibile che nessuno si muova per evitare un chiaro spreco e un’evidente ingiustizia?
Kento: Giovanni Falcone diceva che le idee camminano sulle gambe degli uomini e il carcere è uno dei luoghi dove più di tutti le persone fanno la differenza. E quando dico “persone” non mi riferisco ai detenuti, ma agli adulti, agli educatori, ai dirigenti e al personale. Tutta la differenza del mondo la fanno gli adulti. C’è una differenza tra un carcere e l’altro che è aleatoria e non lo credevo assolutamente possibile. Come tu puoi capitare in una “buona” scuola o in una “cattiva” scuola, puoi capitare in “buon” carcere o in un “cattivo” carcere. Il “buon” carcere non esiste, il carcere è brutto se fosse buono si chiamerebbe “Grand Hotel” e non carcere. Allo stesso modo il “cattivo” carcere non è quello dove ti picchiano o ti abusano. Il “cattivo” carcere è quello in cui gli adulti fanno semplicemente il loro lavoro: arrivano, timbrano il cartellino, se ne vanno e arrivederci e grazie. Il “buon” carcere è quello dove ci sono adulti, educatori che buttano il cuore oltre l’ostacolo, che fanno oltre e magari si beccano anche delle ramanzine per aver fatto di troppo. Ma è lì che i ragazzi trovano la differenza.

I.: Come si convive con l’idea che Mirko sia sparito senza lasciare traccia?
Kento: I ragazzi che spariscono sono quelli che mi pesano di più sul cuore. Per quelli che si fanno sentire sono tranquillo in un senso o nell’altro. Sono tranquillo per quelli che ora sono liberi, che vengono alle serate, salgono sul palco e gli passo il microfono. E sono meno, ma relativamente tranquillo per quelli che finiscono in carcere di nuovo, magari nel carcere degli adulti. Quelli che spariscono che fine avranno fatto? Statisticamente qualcuno di loro ha fatto una brutta fine e non è un pensiero che affronto facilmente.
I.: Ragazzi minorenni, adolescenti o pre adolescenti che arrivano da situazioni pesanti e/o di degrado, che guardano un video rap e riconoscono in una rapper che non rispecchia i canoni estetici che vanno per la maggiore, la possibilità, per tutte le donne, di essere rappresentate. Laddove “noi” vediamo dei criminali, tu ci mostri che sono più avanti di chiunque!
Kento: Loro su tante cose sono estremamente maturi, perché la vita li ha fatti maturare molto spesso. A volte capita che siano già padri, che abbiano anche più di un figlio. C’è la sensazione che questi ragazzi non abbiano avuto l’età di mezzo e siano passati dall’essere bambini ad essere adulti, privati dell’adolescenza. E’ anche questo un furto che hanno subito, perché sono anni che non si recuperano. Nel rapporto con le donne c’é chi non è assolutamente capace di parlare con una donna e si ritrova di fronte a una ragazza e si impappina, senza pronunciare nemmeno una parola e chi ha già 2 o 3 figli a 16 anni. Sono due eccessi che dimostrano delle mancanze. Lavorare sull’affettività dei ragazzi sarebbe un elemento fondamentale.
I.: “Ladri!”, “spacciatori!” … ragazzacci, ma innamorati della poesia!
Kento: Nella strada c’è poesia. Nella strada c’è una poesia particolare, molto dura ma anche molto vera. Da questo punto di vista dai ragazzi detenuti mi aspetto molto di più che dai ragazzi liberi e ti spiego perché. Un ragazzo libero che ha vissuto una vita tranquilla fatta di casa, scuola, campetto, fidanzata e gita scolastica può parlare di casa, scuola, campetto, fidanzata e gita scolastica. Un ragazzo detenuto che al 99% ha fatto vita di strada mi aspetto che mi dica qualcosa in più, che mi restituisca questo blues, questa tristezza e quest’amarezza. Un ragazzo che per definizione già la vita ha sconfitto, perché almeno una sconfitta l’ha avuta essendo carcerato, mi racconta la non invincibilità della vita di strada. Ho trovato degli spunti di maturità pazzeschi in questi ragazzi, che io alla loro non avevo per fortuna mia, perché non ho vissuto un certo tipo di esperienze.
I.: Quali “Cose Preziose” possiamo portare a questi ragazzi?
Kento: Le sbarre funzionano in due sensi: tengono i ragazzi fuori dal mondo e il mondo fuori dai ragazzi. Qualsiasi cosa possiamo fare almeno nel nostro senso per abbattere quelle sbarre è positiva. La prima cosa da fare è informarsi! Qual è il carcere minorile più vicino a me? Chi sono i ragazzi che ci stanno dentro? Come vivono la loro giornata? Sono dati pubblici, liberi! Basta andare su internet sul sito di Associazione Antigone e ci sono questi dati. Anche solo trovare uno spazio mentale per questi ragazzi serve. Ovviamente non possiamo andare tutti a fare attività di volontariato, ma siamo tenuti a informarci. Mi capita spesso di andare nelle scuole e dire: “Ma sapete che dall’altra parte del muro ci sono ragazzi e ragazze carcerati della vostra stessa età? Secondo voi cosa pensano? Come passano le giornate?”. In risposta vedo questi occhi sgranati e quest’epifania negli occhi dei ragazzi che mi fa un po’ bene e un po’ male. Da un ragazzo adolescente però posso aspettarmi che non abbia ancora certe consapevolezze. Quello che è grave è che viene dagli adulti molto spesso questa inconsapevolezza e su questo dobbiamo lavorare ancora tanto.
I.: Quando sei tornato i tuoi ragazzacci erano ancora lì?
Kento: Loro sono sempre lì. Ce ne sono sempre di nuovi. Entrano, escono, le storie si rinnovano, le storie sono sempre diverse. Quello che so è che c’è ancora tanto lavoro da fare.
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“Barre” è diventato anche un documentario: https://video.repubblica.it/dossier/barre-aperte
Sito dell’Associazione Antigone: https://www.antigone.it/